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Studio Legale
Avv.ti Carmine ed Anita Celentano

- Patrocinio in Cassazione -

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Protezione umanitaria. Epidemia da Covid.19. Diritto alla tutela della vita privata

Tribunale di Napoli, 16.6.2021, decreto n. 5131

Il richiedente asilo proveniente dall'Egitto è inespellibile  in considerazione della situazione complessiva sussistente in Egitto e, fra l'altro, della persistente presenza  dell’epidemia da coronavirus Covid19, non adeguatamente contrastata dal Governo e le gravi carenze strutturali del sistema sanitario del paese, incapaci di assicurare la tutela della salute alle fasce sociali svantaggiate, nonché l’ulteriore impoverimento di queste ultime, al quale l’istante appartiene, causato dall’epidemia, in uno dei paesi in cui circa il 35% degli egiziani vive al di sotto della soglia di povertà,  integra quella peculiare condizione di inespellibilità di cui all’art. 19, comma 1.1., atteso che "il rimpatrio dell’istante non può che esporlo, verosimilmente, al rischio di vedere pregiudicato il suo fondamentale diritto alla tutela della vita privata, di cui all’art. 8 CEDU, qui ricomprendente anche la sua integrità fisica e la sua salute.

Tanto giustifica il diritto del ricorrente alla protezione umanitaria, ratione temporis invocabile, con diritto al permesso per casi speciali di cui all’art. 19 T.U.I., siccome “come il permesso per protezione umanitaria, il permesso per protezione speciale contemplato dall’art. 19, comma 1 e 1.1. t.u.i., a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. n. 130/20, ha durata biennale e, ad esclusione dei casi in cui si riscontrano cause di esclusione della protezione internazionale, può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, giusta le modifiche apportate agli artt. 32, comma 3 d.lgs. 252008 e 6 t.u.i. dalla novella in questione"




Codice della strada. Illegittimità della revoca della patente.

Giudice di Pace di Salerno, 26.4.2021 n.5395

Il provvedimento di revoca della patente di guida è illegittimo se risulta decorso il precedente periodo di sospensione. Essendo, invero, giuridicamente venuto ad esistenza il titolo, non rileva che la patente di guida non sia stata materialmente rilasciata dalla Prefettura, nonostante più volte richiesta dall'interessato, non potendo riverberarsi su quest'ultimo il mancato svolgimento di attività dovuta. Di qui l'annullamento del provvedimento di revoca "emesso sulla base di un errato presupposto".




Obbligo di fare. Attività prodromica all'esecuzione.

Tribunale di Avellino, ordinanza del 19.1.2021, r.g. 4797/2020

Il Collegio del Tribunale di Avellino ha accolto il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. proposto dal creditore avverso l'ordinanza con cui il Giudice dell'Esecuzione aveva sospeso la procedura esecutiva ritenendo, come censurato, che gli atti interni posti in essere dal debitore non avessero natura prodromica all'esecuzione, ed invero "l'insufficienza dei mezzi finanziari o il mancato espletamento delle procedure interne all'ente debitore è irrilevante per il creditore perché non può assurgere a causa non imputabile ex art. 1218 c.c., essendo interna all'economia del debitore e rilevando quindi, solo nei rapporti interni tra i soggetti coinvolti nell'adempimento dell'obbligazione".




Codice della strada. Illegittimità dell'ordinanza ingiunzione per carenza di prova.

Giudice di Pace di Avellino, 2.10.2020, n. 1859

L’ordinanza prefettizia deve essere, a pena di illegittimità, motivata, sia pure succintamente, sia in relazione alla sussistenza della violazione, sia in relazione alla infondatezza dei motivi allegati con il ricorso. In altri termini, non è sufficiente che il Prefetto si riporti genericamente alle risultanze degli accertamenti compiuti ma è, altresì, necessario che prenda posizione in relazione alla infondatezza dei motivi prospettati dal trasgressore con il ricorso proposto in via amministrativa, dando conto – sia pure succintamente – delle ragioni di fatto e di diritto che ne hanno comportato il rigetto. In assenza di motivazione e prove, l'ordinanza prefettizia non può dirsi legittima.

Integra il vizio di cui innanzi anche la mancanza di riferimenti, sia pure sommari, alle circostanze di tempo, di luogo e di fatto che avrebbero reso impossibile la contestazione immediata da parte degli agenti verbalizzanti e di quelle che solo a distanza di tempo, l’avrebbero resa possibile. Ed invero, il Giudice di Pace di Avellino ha ritenuto, con sentenza 1859/2020, che che "l'ente opposto non ha fornito alcuna prova delle circostanze relative al rilievo dell'infrazione lamentate dal ricorrente....Da tanto, in assenza di prove certe circa la legittimità del provvedimento opposto, la necessaria dichiarazione di annullamento dello stesso.."




Obbligazioni. Buoni Postali Fruttiferi e calcolo degli interessi.

Arbitro Bancario Finanziario - Collegio di Napoli, 18.6.2019, n. 14791

Nella disciplina dei buoni postali fruttiferi dettata dal testo unico approvato con il d.P.R. n. 156 del 1973, il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore dei titoli si forma sulla base dei dati risultanti dal testo dei buoni di volta in volta sottoscritti. Ne deriva che il contrasto tra le condizioni pattuite in ordine agli interessi apposte sul titolo e quelle stabilite dal d.m. che ne disponeva l'emissione deve essere risolto dando la prevalenza alle prime. E' invero contrario alla funzione stessa dei buoni postali -  emessi in serie, per far fronte a richieste di un indeterminato numero di sottoscrittori - che le condizioni alle quali l'amministrazione postale si obbliga possano essere, sin da principio, diverse da quelle espressamente rese e note al risparmiatore all'atto della sottoscrizione del buono.

Nel caso di specie, il rendimento del buono postale avente serie “P” emesso nel 1987 allorquando vigeva il  D.M. 13.06.1986 che aveva introdotto la diversa serie "Q", non poteva che essere calcolato sulla base degli originari interessi così come risultanti dalla tabella posta a tergo del buono stesso, e ciò in considerazione non solo del fatto che, a decreto ministeriale già in vigore (1986), era stata utilizzata una serie non più operante (“P”) ma che, in ogni caso, non risultava essere stato apposto sul titolo alcun timbro della serie all'epoca della sottoscrizione vigente (“Q”). L'amministrazione postale, che in fase di reclamo avrebbe voluto sottrarsi al pagamento degli interessi portati dalla tabella posta a tergo del buono postale fruttifero, in sede arbitrale, ha riconosciuto il rendimento del titolo come risultante dall'applicazione degli specifici interessi della serie "P" di appartenenza.

Con decisione del 18.6.2019, n. 14791, l'A.B.F. - Collegio di Napoli, preso atto del riconoscimento delle ragioni della ricorrente da parte dell'amministrazione postale, ha dichiarato cessata la materia del contendere.




Protezione Internazionale. Riconoscimento dello status di rifugiato.

Tribunale di Salerno, decreto dell'1.5.2019 (R.G. n. 7610/2018)

Rifugiato è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, ovvero che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra” (cfr. Convenzione di Ginevra del 1951, art. 1, lett. a, co. 2; id. Direttiva 2004/83/CE, art. 2, co. 1, lett. c; id. D.Lgs. n. 251/2007 nell’art. 2, comma 1, lett. e).

Il Tribunale di Salerno, chiamato a valutare la sussistenza dei presupposti per la protezione internazionale in capo ad un giovane cittadino dell’Egitto, di fede cristiano-copta, con decreto dell’1.5.2019, ha ritenuto di dovergliela riconoscere nella sua più alta forma (cd. status di rifugiato) siccome è risultato comprovato, all’esito del giudizio, che le ragioni della fuga del ricorrente dal proprio Paese di origine stanno nel fondato timore di persecuzione religiosa. Il Collegio ha così motivato la sua decisione: “nonostante le leggi che prevedono la libertà di culto (dal 2014 sancita addirittura a livello costituzionale) e nonostante siano stati creati appositi comitati (previsti essenzialmente a livello locale) per la regolarizzazione amministrativa delle chiese esistenti tuttavia gli scontri settari sono tuttora frequenti e spesso le chiese cristiane (in massima parte copto-ortodosse: la comunità copta è circa il 10% dell’intera popolazione dell’Egitto su un totale di 90 milioni di egiziani, mentre la stragrande maggioranza è di fede musulmana) sono costrette a chiudere per le manifestazioni e gli episodi ostili che provengono dalla maggioranza musulmana. E ciò nonostante qualsiasi permesso od autorizzazione statale e/o degli appositi comitati per la regolarizzazione delle chiese.  Anzi, l’attività dei predetti comitati procede estremamente a rilento (fra le proteste dei vertici della chiesa ortodossa egiziana che pure in un primo momento era stata costretta a sostenere la riforma della regolarizzazione per la quale sono arrivate nell’arco di tempo previsto, migliaia di domande di regolarizzazione, di cui solo qualcuna è stata esaminata). E le autorità di polizia e/o i governi locali nulla o poco fanno di concreto per consentire l’esercizio del diritto di culto (anche se garantito dalla legge): anzi, spesso a seguito dei disordini e dei tumulti causati dagli scontri settari accusano gli stessi cristiani (cioè le vittime) di fomentare il disordine e per non meglio precisate esigenze di sicurezza sociale impongono la chiusura delle chiese. Il racconto del richiedente sul punto è quanto mai preciso (anche la C.T. ha espressamente dichiarato di prestarvi fede): il governatorato del Minya risulta essere fra le province più esposte a tali scontri settari- religiosi e basta scorrere le fonti per rendersene conto (e non è un caso, atteso che si tratta di regione interna a vocazione prevalentemente agricola e storicamente maggiormente permeata di integralismo islamico tradizionalista). Anche l’episodio relativo al villaggio di Kumraeb (si tratta evidentemente del villaggio di Kom AR Raheb sito poco distante da quello di Abu Sidhum, di nascita del richiedente) è raccontato 1in maniera specifica, dettagliata e pienamente credibile. Inoltre corrisponde a quanto evidenziato dalle fonti sopra citate, il fatto che per la risoluzione delle tensioni e degli scontri fra cristiani e musulmani si ricorre spesso a strumenti tradizionali che prevedono l’intervento delle persone più influenti del villaggio (si tratta pur sempre di musulmani, ma decisamente più moderati). Alla luce di quanto sopra ritiene il Tribunale che sussistano le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato. Infatti gli eventi raccontati dal richiedente, del tutto simili a quelli che si rinvengono dalle fonti, costituiscono senz’altro (allo stato attuale dei rapporti fra le varie confessioni religiose presenti in Egitto) quegli atti di persecuzione, o gravemente lesivi, ad opera dei soggetti indicati dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 5. In particolare nella fattispecie qui in esame si tratta dei soggetti indicati nella lettera c: “soggetti non statuali, se i responsabili ... (n.e.d.: Stato, partiti e ONG) non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’art. 6comma 2, contro persecuzioni o danni gravi”. E che si tratti di un danno grave (ai sensi dell’art. 7 d. l.vo 251/2007) motivato dalla religione, non può certo essere messo in dubbio, atteso che si tratta di violazione dei diritti fondamentali dell’individuo, che in aggiunta si attua con modalità che limitano di fatto il diritto di lavorare, di vivere in pace nella propria casa, di recarsi in giro liberamente etc. Il ricorso va pertanto accolto”. 

Il decreto si inserisce nel solco di quella tradizione internazionale umanitaria che tutela il diritto dell’uomo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione nel senso più ampio possibile, ed in modo tale da includervi la libertà di professare il proprio credo e di manifestarlo, sia in pubblico che in privato. 




Prelievo fraudolento a mezzo bancomat. Negligenza dell'Istituto Bancario.

Arbitro Bancario Finanziario - Collegio di Napoli, 3.4.2019, n. 9070

L’utilizzo fraudolento della carta bancomat da parte di terzi non è privo di tutele giuridiche. Anzitutto, si è previsto con il D. Lgs. del 27 gennaio 2010, n. 11, che ricada sull’Istituto bancario l'onere di provare la colpa grave o il dolo del cliente (titolare di tale strumento di pagamento) per potersi sottrarre alla richiesta di rimborso del cliente che neghi di aver compiuto o autorizzato le operazioni eseguite attraverso lo strumento di pagamento. Inoltre, l'Intermediario finanziario è tenuto a predisporre i massimi sistemi di sicurezza e a porre in essere i previsti meccanismi antifrode.

Con decisione del 3.4.2019, n. 9070, l'A.B.F. - Collegio di Napoli ha ritenuto integrata la violazione dei doveri di diligenza posti a  carico dell'Istituto bancario, per essere venuto meno agli obblighi predisposti dalla normativa antifrode, ed invero "dall’analisi della documentazione emerge che ha agito in spregio alla normativa volta a prevenire le frodi sulle carte di pagamento. Più precisamente, l’art. 8, lett. b) n. 2 del d.m. 30 aprile 2007, n. 112 prescrive che il rischio frode si configura allorché venga raggiunto il parametro di “una o più richieste di autorizzazione che nelle 24 ore esauriscano l’importo totale del plafond della carta di pagamento”. Nel caso in esame, si sono succedute ben tre richieste di autorizzazione (nella specie una per POS e due per ATM) e la resistente non fornisce alcun elemento in grado di provare che i massimali previsti non siano stati superati... A tale contegno certamente disinteressato e negligente si aggiunga poi che l’intermediario non produce alcuna evidenza idonea a dimostrare l’adeguatezza dei sistemi di sicurezza predisposti, venendo meno al dettato dell’art. 10 d.lgs. n. 11/2010, non bastando, a tal uopo, la sola tecnologia a microchip della carta. Occorre infatti sottolineare che non fornisce alcuna prova in merito all’attivazione del servizio di sms alert, circostanza, questa, pure eccepita dalla ricorrente. L’orientamento ormai consolidato dell’Arbitro sul punto è nel senso di considerare la mancata attivazione del servizio come un comportamento colposo dell’intermediario rispetto all’obbligo di diligenza professionale su di esso incombente...".

Dunque, l’Istituto bancario, che non ha predisposto idonei strumenti per assicurare la sicurezza delle carte di pagamento ed individuare anche le operazioni non in linea con l'operatività storica del cliente, non può andare esente da responsabilità.




Risarcimento del danno da reato. Esercizio abusivo della professione medica. 

Tribunale di Salerno, II sez. civile, 13.7.2017, n. 3543 

La vittima di reato può agire per il risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale ex art. 185 c.p.c..

Nella vicenda di cui ci si è occupati, si è convenuto in giudizio, al fine di ottenere il risarcimento del danno, un odontotecnico che, senza averne titolo, ha svolto con continuità, onerosità ed organizzazione, atti caratteristici della professione di dentista, ai danni dell'attrice, sottoponendola per circa due anni a svariate cure dentali (interventi, ricostruzione di vari molari, prescrizione di medicinali e terapie) che le hanno provocato danni permanenti. In tal modo, il convenuto ha leso l’interesse generale, tutelato dall'art. 348 c.p., a che determinate professioni, in ragione della loro peculiarità e della competenza richiesta per il loro esercizio, siano svolte solo da chi sia provvisto di standard professionali accertati da una speciale abilitazione rilasciata dallo Stato. 

Il Tribunale di Salerno ha riconosciuto i danni all'attrice, dopo aver, incidentalmente,  ritenuto sussistente il fatto di reato siccome è risultato provato che è stata svolta "attività riservata al medico nei confronti dei pazienti che si rivolgono a lui, in quanto ...quest'ultimo è autorizzato costruire apparecchi di protesi dentaria su modelli tratti dalle impronte fornite da medici-chirurghi , con le indicazioni del tipo di protesi da eseguire...".




Contratti di affitto agrario. Inidoneità della prova orale se non è parte un coltivatore diretto. 

Corte di Appello di Salerno, sez. specializzata agraria, 26.10.2016, n. 565 

Il contratto di affitto agrario, di cui alla legge n. 203 del 1982, non è compreso tra i contratti per i quali è obbligatoria la forma scritta ai fini dell’esistenza e della validità del rapporto contrattuale; pertanto, lo stesso può essere concluso tra le parti anche in forma verbale. Se tanto è indubbio, ai fini della prova della sussistenza di tale contratto verbale e non trascritto, è necessario considerare se l'affittuario sia o meno coltivatore diretto. Se quest'ultimo infatti non è coltivatore diretto: a) per i contratti ultrannovennali, la forma scritta è necessaria per la loro validità (art.1350, comma 8, c.c.); b) per i contratti infrannovennali, la forma scritta è necessaria solo ai fini della prova (art. 3, Legge n.606/96).

Intervenuta in argomento, la Corte di Appello di Salerno ha precisato che "La forma libera è riservata solo al coltivatore diretto, per cui è rilevante la verifica della qualità di una delle parti del contratto, per qualificarlo come agrario. Dalla libertà della forma deriva la possibilità di provare il contratto a mezzo di prova testimoniale e nei limiti di cui all'art. 2721 c.c., la dove è dato al potere discrezionale del Giudice la possibilità di ammettere la prova, anche per i contratti di valore superiore a quelli indicati nella norma. Ciò posto... la prova acquisita in primo grado è inidonea a dimostrare l'esistenza di un accordo tra S.G. e G.S. finalizzato alla raccolta e vendita periodica dei frutti, del noccioleto e del castagneto, senza tuttavia dare la certezza della continuità del lavoro di coltivazione dei fondi, e della qualità di coltivatore diretto di G.S.... Ebbene tutti i testi riferiscono di circostanze non puntuali, incerte circa la portata dell'accordo tra le parti, e nulla dicono sulla qualità di coltivatore diretto di G.S.. Pertanto, può dirsi provato tra le parti un accordo atipico di natura agricola, non qualificabile come contratto agrario meritevole della tutela di legge, circa la forma adottata e la sua durata."

In definitiva, i contratti stipulati ex art. 45 della Legge n.203/82 possono essere conclusi verbalmente solo se l'affittuario è coltivatore diretto. Laddove, invece, l’affittuario non sia coltivatore diretto, la forma scritta è richiesta finanche ai fini della validità nel caso di durata ultranovennale, ed in ogni caso, a prescindere dalla durata, ai fini della prova.






Per informazioni inerenti le questioni giuridiche di cui ai suddetti casi, contattare lo Studio Legale.